È la Giornata della Memoria, oggi. Non dimentichiamolo, domani!
Chi salva una vita salva il mondo intero, si legge nel Talmud. Ma se non possiamo salvare una vita, almeno salviamo la sua storia, il suo patrimonio di affetti e di pensieri. Diciamo noi.
Chi ha salvato una vita, mettendo a rischio la propria, è stato definito, dopo la seconda guerra mondiale, Giusto tra le Nazioni. Il 27 gennaio, giorno del 1945 in cui le truppe sovietiche arrivarono ad Auschwitz, è la giornata della memoria. Memoria e giustizia si incontrano, collidono e quasi si elidono. Perché in 24 ore ci diamo da fare, in modo ammirevole, fra libri, documentari, interviste, testimonianze, film e conferenze, per ricordare 5.860.000 ebrei. 4.069 al minuto. Impresa lodevole, bella, ma impossibile. Se consideriamo poi che i nazisti colpirono anche Rom e Sinti, comunisti, omosessuali, malati di mente, persone di colore, Testimoni di Geova, sovietici e polacchi il numero di vittime sale fra i dieci e i quattordici milioni. Una cosa immane.
Già di prima mattina, il 27, rischiamo di perdere subito l’immagine precisa della memoria, così nitida in Primo Levi, quasi un ritratto: considerate se questo è un uomo / che lavora nel fango / che non conosce pace / che lotta per mezzo pane / che muore per un sì o per un no. Considerate se questa è una donna, / senza capelli e senza nome / senza più forza di ricordare / vuoti gli occhi e freddo il grembo / come una rana d’inverno.
Questo uomo e questa donna smarriscono subito i loro lineamenti in un concetto enorme, indistinto: Shoah, Olocausto, sterminio di massa appunto. Il contrario del ricordo, legato all’uno, al piccolo, al dettaglio che fa la differenza.
La perdita dell’identità, del resto, era la prima ferita dei campi, il dolore delle radici strappate, i numeri che sostituivano il nome, recidevano la personalità, prima della persona. Difficile così far convivere memoria e giustizia, trarne materiale comprensibile ed efficace per le nuove generazioni.
Lo Yad Vashem, il Museo dell’Olocausto di Gerusalemme, è una delle testimonianze più monumentali ed evidenti di questa fatica. Ogni lembo di stoffa, ogni scarpa (l’ultima difesa,disarmata la dignità, davanti alla morte), ogni pezzo di carta, parola, disegno, frammento, bottone è stato catalogato, “umanizzato”, e corrisponde a un nome, a un volto, a una persona con una storia, una vita, un lavoro, una passione, una debolezza, una famiglia. Ecco che la memoria minima, quella di un affetto, di un vestito, di un talento, di un recipiente per cucinare, di una poesia, di uno spartito, di un panetto di burro usato come crema per il viso, restituendo l’identità e i suoi colori a ogni persona scomparsa, ristabiliscono la giustizia. Salvando altre vite.
Ecco perché è fondamentale ricordare soprattutto, ogni giorno, informarsi per assicurare sostanza ai ricordi e garantire contenuto a nuove conoscenze. Non smarrire l’identità di chi soffre, ricordarci costantemente delle atrocità e delle guerre, soprattutto di quelle dimenticate dai mass media, andare a cercarle ovunque le informazioni, associarle a volti, a storie, a piccole trame di vite vissute che sono state soffocate.
Informarsi è un dovere, come la memoria e la giustizia. E ne è la base, l’ordito.
Informarsi e tenere le immagini di quelle vite in bilico con noi, vicine, perché se fanno parte della nostra quotidianità la commozione non sarà un abito di circostanza, ma quello che è etimologicamente: una spinta, una tensione, un movimento verso il bene.
Informarsi e conoscere come antidoto al magma indistinto della violenza senza nome, per essere sempre al riparo, in quanto uomini, dalla contraddizione con la propria natura. L’umanità, semplicemente, quello che abbiamo, quello che siamo.
Hanna Arendt ha detto che i regimi totalitari del XX secolo hanno dimostrato che le norme morali di una società possono essere travolte. Il male è banale, ma difendersene non lo è. ci vuole determinazione per fare il bene. Ed è in momenti come quelli descritti dalla Arendt, quando cosa ci succede intorno, a vari livelli, non può più costituire un riferimento, che è necessario trovare in noi stessi valori da perseguire. Viene in mente, prima di tutto, l’aprirsi agli altri, l’altruismo radicale, come ben descritto nel diario di Etty Hillesum, o da Vassilij Grossman quando, pensando al regime staliniano, ci regala il bellissimo paradosso, quasi un ossimoro, della “bontà insensata”. Perché di fronte a certe ingiustizie, l’aggettivo insensata non sembra poi così stonato accanto a bontà. Però l’umanità sì, la difesa di ogni uomo, a partire dalla sua identità, quella resta l’unica scelta per coniugare memoria e giustizia. E l’informazione che porta alla conoscenza e, quindi, alla consapevolezza e alla coscienza, l’unico strumento per evitare di perderla, l’umanità, nell’accerchiamento frenetico delle istanze della vita moderna che sembrano diluire ogni tentativo di buono e di bello. Ma il buono e il bello sanno sempre restare, come scrive Viktor E. Frankl, citando Friedrich Nietzsche: chi ha un perché può sopportare qualsiasi come.
“Bisogna trasformare l’informazione in conoscenza, e come diceva Malraux, trasformare la conoscenza in coscienza; bisogna dunque avere un atteggiamento etico verso la conoscenza. Una conoscenza astratta fa dell’uomo un’astrazione, ma un essere umano è tutto tranne che un’astrazione. Per questo, nel ventesimo secolo, abbiamo assistito a tante atrocità: quando gli altri uomini sono soltanto un’astrazione senza umanità si possono annientare. Io penso che se sono informato dell’altro, l’altro per me vive e la sua vita mi chiama e le sue paure mi riguardano, e le sue gioie mi scaldano il cuore”, ha affermato Elie Wiesel. In queste sue parole ritroviamo tanto del nostro modo di essere.
Cose che ci riguardano quelle che accadono a migliaia di chilometri, in Paesi geograficamente lontani? Tutto, in un mondo globalizzato ci riguarda e ci raggiunge in pochi attimi. Allora perché non ci riguardano sempre anche i sentimenti, il dolore e la sofferenza senza voce? L’altro non è mai stato così vicino, come adesso. Le dimensioni sono davvero contigue, quasi nulle, quando l’altro è qui. È parte di noi.
Per il Bhalobasa, lo diciamo sempre, non contano i numeri, i numeri non parlano. Contano le persone e le loro storie.
È la giornata della memoria, oggi. Non dimentichiamolo domani.