di Simona Caroti
Satnam Singh, conosciuto come Navi, di origini indiane, aveva solo 31 anni. Di lui non avremmo mai sentito parlare.
Ha smesso di essere invisibile – tragedia nella tragedia – a causa del terribile incidente sul lavoro che gli è costato la vita e della disumanità e atrocità nelle quali si è consumato il suo dramma.
Navi era uno dei migliaia di lavoratori stranieri delle campagne dell’agro pontino, senza permesso di soggiorno, senza un regolare contratto, vittima di sfruttamento – percepiva 4 euro l’ora – e di quel caporalato che in vicende simili raggiunge il massimo della bassezza morale di chi lo pratica e della sua bieca ingiustizia.
Un macchinario avvolgiplastica a rullo, trainato da un trattore, ha amputato un braccio all’uomo, procurandogli anche altre lesioni.
Invece di essere soccorso è stato trascinato su un pulmino e lasciato davanti al luogo in cui abitava. Il suo braccio, invece, è stato buttato in una cassetta di ortaggi.
La moglie, sconvolta, Sonih, di 26 anni, ha implorato che lo portassero in ospedale, ma, come risposta, ha ottenuto che le trafugassero persino i cellulari, per impedirle di chiamare aiuto.
Solo dopo un’ora e mezza di agonia di Navy è arrivato l’elisoccorso, chiamato dall’amico e vicino di casa, Tarnjit Singh.
Troppo tardi, in ospedale è deceduto, soprattutto a causa di un forte dissanguamento.
Navi e Sonih erano molto legati e lei gli è stata vicina fino all’ultimo.
Sono stati vittime di una malvagità e di un orrore senza nome, conseguenze aberranti di un sistema di sfruttamento che ha come scopo quello di cancellare le persone, mercificandole, valutandole solo in base al rendimento, privandole di ogni possibile diritto, pagandole quasi niente e minacciandole costantemente per far crescere in loro l’ansia di perdere tutto.
Il caporalato è la morte di ogni rispetto, una forma deprivante di vera schiavitù, spesso un ambito dell’economia mafiosa, la cosiddetta agromafia, diffuso in tutta in Italia.
Dal 2016 è stato introdotto il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro per punire i “caporali”, chi attua questa ignobile pratica, un affare sporco e criminale, di padroni e di padrini, di sfruttamento dei deboli e di marginalità.
Confidiamo che le indagini, per omicidio colposo, violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro e omissione di soccorso, restituiscano almeno giustizia – visto che è stato tolto loro tutto – a Navi e alla moglie, infliggendo ad Antonello Lovato, in “datore di lavoro” la pena che merita.
Sonih adesso è rimasta sola nel Paese che aveva scelto con il marito per costruire una famiglia, un futuro insieme. Vicino a lei associazioni e sindacati che se ne stanno prendendo cura.
“Io sono indiana, l’Italia non è un Paese buono”, ha ripetuto continuamente ai giornali.
Una frase che ci ha fatto immediatamente venire in mente con quale altissima forma di accoglienza le persone più povere di cose e mezzi, nostre amiche dopo anni di viaggi e di conoscenza, ci accolgono ogni volta che torniamo in India per verificare progetti e sostegni a distanza e per incontrare bambini, bambine, referenti e tutti coloro che ci permettono di dar vita a concrete ed efficaci forme di aiuto.
Vorremmo tanto incontrarla, Sonih, vorremmo accoglierla come nel suo Paese veniamo accolti… e vorremmo fortemente che d’ora in poi potesse conoscere solo la parte davvero buona dell’Italia, quella perbene, sebbene consapevoli che niente potrà colmare l’enorme vuoto lasciato dalla morte così tremenda di suo marito.