di Simona Caroti
“Dobbiamo salvare queste persone, dobbiamo proteggerle. È il governo stesso che sta facendo questo”. Antonia Locatelli, missionaria italiana uccisa per il coraggio della sua denuncia nel 1992, due anni prima dell’inizio ufficiale del genocidio ruandese, riposa sotto alberi fioriti vicino alla chiesa di Nyamata, a 26 chilometri da Kigali.
Il nostro viaggio in Repubblica Democratica del Congo, con Bhalobasa, ha come ultima tappa questo luogo. Per una sorta di simmetria perversa e ostinata mentre visitiamo il memoriale altre bombe piovono su Goma. Violenze incrociate, interessi esterni ed estremi, rancori antichi e retaggi post coloniali si intrecciano, percorrono le mille colline, infrangono l’imperativo etico del “never again!” ed esplodono in Kivu. Sembrava si moltiplicassero i campi profughi sotto il nostro sguardo, mentre ci spostavamo tra Congo e Ruanda. Non c’è giorno che lasci dormire la storia, qui. Ci chiediamo cosa sia il passato e cosa rappresenti la memoria, mentre tutto si ripete e la comunità internazionale è indifferente.
La nostra guida a Nyamata si sofferma a leggere le parole della missionaria con noi e i suoi occhi diventano rosso vermiglio. Il colore della commozione quando è forte, ma trattenuta. Si chiama Leon e aveva 11 anni nel 1994. Ha visto massacrare quasi tutta la sua famiglia. Ogni persona che abbiamo incontrato, in Congo e in Ruanda, aveva storie terribili da raccontare. Quelle dei bambini uscivano persino dai giochi, graffiavano l’innocenza e facevano – fanno – più male. Mentre Leon ricorda e racconta, il nostro autista, Steven, si allontana velocemente, con la testa fra le mani e lo vediamo accasciarsi sul volante. Ci dirà dopo, a fatica, che ha perso i genitori e due fratelli.
Nella chiesa vicina è in corso una celebrazione. I canti ci raggiungono, si insinuano dentro la nostra emozione e restiamo increduli, sospesi, indecisi se dire o tacere, ci guardiamo e capiamo che stiamo provando le stesse cose, ci sentiamo più vicini. È un luogo particolare Nyamata. C’è la violenza di un luogo torturato da 45 anni, da quando i primi tutsi furono costretti ad abitare qui, allontanati da terre migliori. C’è la pace di continue nuove sepolture. Si cammina sotto terra fra centinaia di crani e di ossa, una ferita necessaria per comprendere. La porta di ferro della chiesa è quella del 10 aprile 1994. Dilaniata dalla furia degli uccisori che quel giorno non si fermarono su quella soglia, com’era accaduto altre volte, e non risparmiarono nessuno. Dentro tutto è uguale e tutto è diverso, sembra di muoversi in una dimensione senza tempo.
Sono già stata qui!, penso. E la mia mente sovrappone istantaneamente le foto che mi ha mostrato Enrico Frontini all’immagine che ho davanti. Non riesco a scinderle. Frontini mi ha portato fin qui, nell’epicentro del dramma, raccontandomi ogni dettaglio della sua esperienza e senza mai nascondere una commozione intatta dopo 19 anni. È un pediatra, amico del Bhalobasa, ed è intervenuto anche al nostro convegno del ventennale, nel 2011. Abita a Fauglia in provincia di Pisa, ed è nella sua casa piena di Africa che l’ho incontrato, prima di partire. Ha curato bambini nel suo paese e in ogni parte del mondo: Uganda, Repubblica Centrafricana, Etiopia, Darfur, Burkina Faso, Senegal, Malawi, Ghana, Kosovo, Serbia, Afghanistan. Anche in Ruanda, anche a Nyamata. Vide le immagini del genocidio in televisione, il fiume Akagera che diventava sempre più rosso e si chiese di nuovo: cosa posso fare? Dopo pochi giorni la partenza, con il Cuamm, “Medici con l’Africa”, di Padova. Quando arrivò a Nyamata si trovò davanti diverse declinazioni dell’assurdo. Cinquantamila morti, praticamente tutta la popolazione originale, cadaveri ovunque, oltre un migliaio solo in chiesa e un gigantesco campo profughi che lievitava di ora in ora. Moltissimi, troppi, bambini soli, orfani, abbandonati, denutriti, malati, sopravvissuti nascondendosi tra corpi senza vita anche per giorni, assediati dal pensiero di mille orrori. Frontini si prese cura di loro, prima aiutandoli a recuperare fisicamente e poi emotivamente. Tanti non riuscivano neanche a stare in piedi, per la mancanza di cibo, le gambe non li sostenevano e dovevano essere nutriti ogni tre ore. Laurent aveva quattro anni, i soldati dell’Interahamwe sono arrivati a casa sua e hanno ucciso tutti. Lui si proteggeva dal dolore in posizione fetale, digrignava i denti, sembrava fosse fatto di carta o di zucchero da quanto appariva fragile, si accartocciava su se stesso. Frontini lo ha tenuto a lungo in braccio, gli ha ridato la vita ed è diventato per Laurent come per gli altri piccoli un padre. Ad aiutarlo in quei mesi, ragazze a loro volta vittime di stupri e torture che nell’accudire i bambini e nel lenire le loro cicatrici, soprattutto quelle non visibili, innescavano un processo di auto-guarigione e di recupero della bellezza del contatto umano.
Frontini conserva i disegni che, nella seconda fase del progetto dell’associazione Cuamm, venivano chiesti ai bambini insieme ai loro racconti, per esprimere il dolore che avevano dentro e cercare di superare il trauma. “Facevamo una domanda semplice, anche nelle scuole: c’è qualcuno che vuole parlare di cose tristi? I risultati sono stati impressionanti”. Tra i numerosi disegni spicca quello di una persona fatta a pezzi, sotto il bambino ha scritto una parola che ricompone i pezzi di colpo e fa capire in una frazione di secondo la portata del genocidio, le sue conseguenze: “mamma”.
Una parola che sembra rimbombare nella chiesa e nelle cripte di Nyamata. Frontini e i suoi bambini, alcuni ora sono adulti, alcuni sono rimasti piccoli per sempre. I grossi buchi scavati dai colpi, sulle pareti e sull’altare sembrano finestre su un passato grave che è ancora lì. L’aria pesa come se ci fossero migliaia di respiri, preghiere diventate grida e poi silenzio. Mentre siamo circondati da vestiti e oggetti di quel giorno, scorgo un pettine a denti larghi, alcuni rosari, collane e una carta d’identità sui cui si allarga una macchia rosa scuro. Chi la possedeva era un tutsi e la crocetta sull’etnia è diventata una croce. Nel 1933 i belgi inserirono, infatti, l’etnia di appartenenza sui documenti di identità ruandesi, basandosi sulle teorie fisiognomiche ottocentesche che li avevano portati a distinguere hutu e tutsi in base a precise caratteristiche fisiche e sociali.
Scendiamo lentamente gli scalini, le foto del 1994 che mi ha fatto vedere Frontini mi scorrono davanti agli occhi e continuo a sovrapporre, gli occhi fissi e smisurati su corpicini inesistenti, bambini che inciampavano sui resti umani mentre ricominciavano a camminare, la pellicola spessa di sangue che avvolgeva la chiesa e sopra lettini improvvisati per accogliere i bambini sopravvissuti. Una distesa di crani, poca luce, la voglia di uscire e il respiro che manca a ognuno di noi. Ma devo andare avanti perché sento che in quei corridoi angusti c’è quello che non potrò mai trovare in libri, documentari, testimonianze e film. Qualcosa di sacro,un incontro. Un nome su un cranio attira la mia attenzione: Patrick. Ce l’ha scritto il fratello. Guardandolo capisco com’è morto, quanto ha sofferto. La memoria è un dovere, venendo qui un fardello spontaneo. “Ciao Patrick, non ti dimenticherò”. Accanto c’è un cranio molto piccolo, no sono tanti. Stella, la suora delle Figlie di Maria di Bukavu che da Katana, nel Sud Kivu, ci ha accompagnato fin qui si appoggia a me e dice: “È doloroso, ma necessario”. Anche lei ha una storia da raccontare e in questo corridoio stretto emerge all’improvviso: “Due ragazzi ruandesi mi chiesero protezione e aiuto. Ma i soldati li strapparono da me e li uccisero davanti ai miei occhi. La guerra non smette mai, in Congo non conosciamo la pace”. Non smette mai, cosa possiamo fare? Poco, ma questo poco è fondamentale. Informarsi, conoscere, condividere. In poche parole non essere indifferenti.
Davanti a Nyamata c’è una frase che, forse, mette insieme tutto: “Se tu ti fossi conosciuto, se tu mi avessi conosciuto, tu non mi avresti ucciso”.